Editoria, lo scontro entra nel vivo
1995. A Seattle, Stati Uniti, Jeff Bezos fonda Amazon, compagnia incentrata sull’e-commerce. Oggi è una multinazionale che conta oltre 51.000 dipendenti, 152 milioni di account attivi, 2 milioni di società che lo utilizzano come canale di vendita, oltre 6 milioni di visite giornaliere, un fatturato annuo che passa i 20 miliardi di dollari.
Sono i risultati di quindici anni di scalata al mercato, occupazione di larghe fette dello stesso, ampliamento dell’offerta, scelte audaci che hanno pagato dividendi che definire significativi è molto riduttivo. Una corsa al potere che Amazon ha compiuto senza guardare in faccia nessuno, puntando sempre più in alto e mantenendo il controllo di un gioco le cui regole sono le regole di Amazon.
A farne le spese sono stati in tanti, molti dei quali non hanno compreso appieno il potenziale della società di Seattle e l’hanno vista solo come un altro canale di vendita, una nuova possibilità. Salvo ritrovarsi in forte difficoltà quando il canale si è trasformato in un fiume in piena.
Il mondo dell’editoria ne è un esempio perfetto. Amazon è contemporaneamente il principale rivenditore e avversario delle grandi case editrici mondiali. Abbandonarlo vuol dire salutare per sempre una larga fetta di profitti, più di quanto sia possibile permettersi. Ma restare significa sottostare alle regole di Amazon. E, come nel corso di un seminario tenuto a Milano un paio d’anni fa ebbe modo di dire Valentina Kalk, responsabile editoriale delle Nazioni Unite “un contratto con Amazon, Apple o Google non è un accordo fra gentiluomini: è più uno scontro all’ultimo sangue fra Davide e Golia”.
Così, nonostante tutte le difficoltà, agli editori non è rimasto che scendere apertamente in guerra, per cercare di limitare i danni e salvare il salvabile. Un scontro che fino ad ora non è andato molto bene, visto che Amazon ha continuato a crescere e ad andare all’attacco.
Il 18 ottobre 2011 il New York Times metteva in prima pagina la notizia che Amazon aveva cominciato a contattare direttamente gli autori, scendendo ufficialmente nel campo dell’editoria tradizionale. “Dopo aver dimostrato ai lettori che non hanno bisogno di librerie, adesso Amazon sta incoraggiando gli scrittori a bypassare gli editori. È un’accelerazione stupefacente che pone il colosso di Seattle in diretta competizione con le storiche case editrici newyorchesi, mettendo a repentaglio l’esistenza di queste ultime e degli stessi agenti letterari”: così scriveva David Streitfeld, corrispondente economico del quotidiano.
Le reazioni erano state di ostilità più o meno aperta, ben riassunte nel commento di Richard Curtis, un agente che si occupa di ebook: “Tutti temono Amazon. Se sei una libreria, Amazon compete con te da molti anni. Se sei un editore, un giorno ti svegli e te lo ritrovi come rivale. Se sei un agente letterario, ti sta rubando il pane quotidiano, perché offre agli autori la possibilità di pubblicare direttamente senza usarti come intermediario”.
Anche un’autorità come Andrew Wylie, l’agente letterario più potente e influente d’America, aveva parlato contro la mossa di Amazon, lui che, come si era malignato nell’ambiente, era stato il primo “a venire a patti col diavolo” per aver pubblicato in formato ebook direttamente con Amazon diversi autori famosi. E in parecchi ritengono che proprio quella mossa di Wylie sia il precedente che ha spinto Amazon all’attuale mossa.
Pochi mesi dopo, nel febbraio 2012, il rinnovo del contratto in essere con Ipg (Indipendent Publishers Group) vedeva l’azienda di Seattle chiedere una ridiscussione dei prezzi di vendita dei libri in catalogo (ovviamente al ribasso), richiesta giudicata inaccettabile da Ipg. Come risposta Amazon ha tagliato il contratto e, di punto in bianco, espulso oltre 4000 titoli del distributore dalle librerie Kindle. Una mossa tanto drastica quando necessaria, così l’ha definita Amazon. Ma sono in tantissimi ad aver colto il messaggio. “E’ un motivo di preoccupazione e un avvertimento per chiunque vuole vendere un’edizione digitale dei propri testi: o si accettano le loro condizioni o si è fuori”, sono le parole con cui Andy Ross, ex libraio e agente letterario ha commentato la notizia durante un’intervista rilasciata al New York Times.
A maggio 2012 è scoppiata un’altra bomba, l’accusa lanciata da Amazon contro Hachette, Harper&Collins, Simon & Schuster, Penguin, Macmillan e Apple – che, come è noto, ha sempre lasciato liberi gli editori di decidere il prezzo di vendita – di aver messo in piedi un vero e proprio cartello di controllo dei prezzi dei libri digitali. Una vicenda che ha interessato direttamente anche l’Antitrust degli Stati Uniti, che ha cominciato a indagare. E un mese fa (18 ottobre) Amazon ha inviato a tutti i suoi clienti che avevano acquistato, fra aprile 2010 e maggio 2012, ebook dei primi tre editori indagati, una comunicazione che iniziava così: “Gentile cliente Kindle, abbiamo buone notizie. Hai diritto ad un certo credito per alcuni degli ultimi e-book che hai acquistato, a seguito di vertenze giuridiche tra i principali editori di e-book e un gruppo di avvocati della maggior parte dei territori degli Stati Uniti, compreso il tuo”.
Un vero e proprio dispaccio di vittoria, dato che Hachette, Harper&Collins e Simon & Schuster hanno deciso di patteggiare. E se da un punto di vista economico le case editrici non ci perdono granché – nel periodo in esame è stato stimato che abbiano avuto guadagni per oltre 70 milioni di dollari – da un punto di vista più generale questa sorta di ammissione di colpa dà un altro schiaffo alla credibilità dell’editoria tradizionale e lancia ulteriormente in alto l’astro di Amazon, che ha già annunciato che è ansiosa di ridurre i prezzi dei libri Kindle in un prossimo futuro. Oltre a creare un precedente importante e decisamente scomodo.
Tuttavia gli editori qualche carta ancora da giocare ce l’hanno. E hanno deciso che era tempo di rispondere. Così, a fine ottobre, è stata ufficializzata la fusione di Penguin e di Random House, due dei cosiddetti Big Six dell’editoria (gli altri quattro sono Harper&Collins, Simon&Schuster, Hachette, Macmillan). Il nuovo gruppo sarà controllato al 53% dalla tedesca Bertelsmann (proprietaria di Random House) e dal 47% dall’inglese Pearson (proprietaria di Penguin) e avrà come Ceo Markus Dohle e come chairman del consiglio direttivo John Makinson. Dei nove consiglieri cinque saranno eletti da Bertelsmann, quattro da Pearson.
La Penguin Random House, come da adesso sarà chiamata, parte con un controllo consolidato sul 27% del mercato di lingua inglese e con un fatturato di oltre 3 miliardi di dollari, cifre che ne fanno di gran lunga la casa editrice più potente del mondo, con un portafoglio autori che spazia da Toni Morrison a John Grisham, da E.L. James a Jamie Oliver, da Tom Clancy a Ken Follett, da Dan Brown a Patricia Cornwell.
E’ interessante notare come questa fusione, le cui trattative andavano avanti da mesi, sia stata, secondo diverse indiscrezioni, accelerata dalla possibilità che Rupert Murdoch, proprietario del gruppo che controlla Harper&Collins, si facesse a sua volta avanti per una fusione, con Penguin come obbiettivo. Un segnale che l’unione di due dei Big Six non è certo un’idea estemporanea, ma che l’intero settore sta ragionando in questi termini, convinto che solamente ingrandendosi potrà tenere testa ad Amazon e fare qualcosa di più che meramente sopravvivere.
A questo punto che scenari si prospettano all’orizzonte? Quanto questa fusione potrà influenzare?
Un dato di fatto è che, a differenza della biblica sfida, qui Golia non si fa abbattere da un colpo di fionda e non è nemmeno detto che Davide abbia la fionda. Ora come ora le case editrici hanno davvero poco per opporsi ad Amazon. Ma se è vero che l’unione fa la forza, allora assieme possono, se non trasformare la sfida in un Golia vs Golia, quantomeno mettere in campo un Davide più tonico, tosto e armato.
In giro per la Rete si trovano commenti di svariato genere e tono. C’è chi ritiene che questa mossa non servirà a niente e che non sarà certo Amazon a pagare l’aumentata forza di Penguin e Random House, bensì gli autori, ancor meno possibilitati a negoziare.
C’è chi vede in questa fusione un passo che va oltre l’editoria libraria e che riguarda l’intero mondo della comunicazione: il gruppo Berterlsmann possiede anche emittenti televisive e radiofoniche ed è proprietario di svariate riviste; Pearson controlla tanto il Financial Times quanto L’Economist, due dei quotidiani finanziari più letti del mondo, il secondo con una vendita di oltre un milione di copie alla settimana; il gruppo di Rupert Murdoch è altresì proprietario di Sky, mentre Simon&Schuster è posseduta dalla potente emittente televisiva americana Cbs.
C’è chi soprattutto ritiene che, forti o no, le case editrici non potranno in alcun modo abbandonare il canale distributivo rappresentato dal colosso di Seattle perché le perdite sarebbero devastanti. Ma proviamo a girare la questione: se tutti i principali gruppi editoriali del mondo dovessero decidere che è tempo di dire no ad Amazon e alle sue condizioni e rifiutassero di usarlo come canale a Seattle come reagirebbero? Recenti ricerche dicono che il 90% di quanto viene letto negli Usa è nelle mani dei Big Six: la presenza di questi titoli e dei loro autori su Amazon quanto conta? Ad oggi nessun grande nome è esclusiva di Amazon, gli autori continuano a passare per l’editore tradizionale, mediati da un agente letterario. Fin dove si può continuare a spingere? Cancellare dal catalogo di Kindle 4000 titoli di piccoli editori indipendenti è una cosa, cancellare di colpo centinaia di titoli di decine di autori famosi avrebbe delle ripercussioni assai più elevate.
Sono in gran parte ipotesi che difficilmente diverranno realtà, ma non sono così assurde. Amazon è certamente un gigante, un avversario dai mezzi apparentemente illimitati e dalla forza superiore. Ma come ogni buona opera fantasy o di fantascienza insegna – che sia un libro, un fumetto, un film o un videogame non importa – tutti hanno un punto debole. Perfino Amazon. Che, per la prima volta dal 2003, ha chiuso il trimestre luglio-settembre in rosso. Difficile vederlo come un segno di debolezza, ci vorrà un po’ per capire se lo è o se, invece, è semplicemente un qualcosa di passeggero, dovuto a investimenti cospicui i cui ritorni sono in arrivo in questo trimestre successivo. Ma non commettiamo l’errore di pensare che la situazione ormai sia incanalata su dei binari dai quali non può deviare.
E chiudiamo con un esempio, una di quelle piccole storie che spesso passano sotto silenzio ma che, invece, sanno insegnare. La EDC è una piccola casa editrice americana, con base a Tulsa (Oklahoma), specializzata in materiale didattico per l’infanzia. La EDC usa da anni Amazon come canale di distribuzione, affiancandolo a un’attività di vendita diretta sul territorio. All’inizio di quest’anno il fondatore e proprietario, il 70enne Randall White, scopre che un suo abituale cliente, un istituto scolastico, ha deciso di acquistare il materiale didattico via Amazon, visto che lì lo può avere a prezzo scontato. E di mandare alle ortiche la fiducia reciproca stabilita in anni di rapporti.
Così, avendo deciso che quando è troppo è troppo, White ritira tutto il suo catalogo, uscendo volontariamente dal circuito Amazon. E rinunciando scientemente a ricavi annui pari a un milione e mezzo di dollari. Una scelta che in parecchi hanno definito incosciente, ma che in molti hanno ammirato. Perché con questo gesto l’anziano White – che è responsabile delle sorti lavorative di oltre 70 persone – ha puntato i riflettori su un aspetto di grande importanza: Amazon offre ai clienti finali una quantità spropositata di beni alle migliori condizioni possibili per i clienti stessi. Ma fino a che punto il loro interesse deve prevalere su quello di chi quel bene lo ha prodotto?